sabato 26 dicembre 2015

Quer pasticciaccio brutto dei subordinati

Il risparmiatore italiano ha scoperto un altro titolo. Il subordinato. Con i rendimenti dei titoli di Stato cui era stato affezionato (e continua ad esserlo per fortuna) poco sotto o poco sopra lo zero (dipende dalla scadenza), il risparmiatore italiano ha cercato rendimento in altri titoli. I subordinati appunto.

Dopo i bond Argentini e i bond Cirio non pensavo potesse succedere ancora. Risparmiatori che perdono i loro investimenti per non aver compreso il rischio.

Ma nessuno - ora come allora - si interroga se ci possono essere altri strumenti finanziari offerti al risparmiatore e che lo possono esporre a rischi non ben evidenziati al momento della sottoscrizione o dell'acquisto. Purtroppo il recinto si chiude solo quando i buoi sono usciti. Troppo tardi.

In attesa che qualcuno si ponga questa domanda, in molti si sono scatenati per risolvere la questione di chi ha sottoscritto questi titoli. E c'è anche ci si pone condivisibili dubbi di costituzionalità della norma (noisefromamerika - bad banks qualche interrogativo costituzionale) che crea questa situazione.

Cerchiamo di andare oltre il problema contingente. I miei piccoli suggerimenti:

1. occorre recuperare la deontologia allo sportello, per non rompere il legame di fiducia tra banca e depositante. Il problema è che per seguire il budget assegnato dalla sede centrale, lo sportello vende anche a chi non ha la possibilità di capire il rischio cui va incontro. Anche se ben spiegato, il rischio non è facile da capire. Altrimenti non si spiegherebbero le varie "bolle", ultima - per ora - quella dei subprime. Non tutti hanno in mente una regola base dell'economia: There is no such thing as a free lunch e ne capiscono fino in fondo le implicazioni. 

2. Utilizzare le regole del mercato. Quotare sempre gli strumenti che sono destinati al cd. retail. E che la quotazione sia effettuata non solo dall'emittente, ma anche da intermediari che si impegnano a quotare a fronte di fee pagate dall'emittente. La quotazione - se seguita - consente di rivelare a tutti le informazioni che sono note agli intermediari. E in caso di problemi, i prezzi scendono. Ora il punto sarà far seguire le quotazioni a chi sottoscrive questi titoli. Mi torna in mente quello che succedeva nel 1929, dove in molti passavano ore nelle borse locali per seguire l'andamento dei titoli. Dato che paghiamo un servizio pubblico (la RAI) è troppo chiedere che ogni telegiornale messo in onda parli di concrete questioni finanziarie?

3. Formazione. Sempre perché abbiamo un servizio pubblico (la Rai) è troppo chiedere che abbia una chiara rubrica sui mercati finanziari e gli strumenti autorizzati alla vendita al retail? Un programma alla Piero Angela o del Maestro Manzi, "Non è mai troppo tardi"?

domenica 6 dicembre 2015

L'Europa che scaccia l'Europa

Alle volte l'Europa sembra non essere consapevole del ruolo che deve giocare nel panorama internazionale. Sembra prigioniera della paura di essere un elemento democratico e liberale nel mondo, un punto di riferimento credibile nel palinsesto che, quotidianamente, va in scena nelle piazze mondiali.

Ecco che allora si discute - ormai in modo inconcludente - della regola del deficit e delle flessibilità legata a improbabili clausole, invece di decidere di seguire politiche economiche coordinate per spingere gli investimenti, specie in R&D, per l'inclusione, per l'inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Il whatever it takes della politica economica. Se poi questo voglia dire una certa percentuale di indebitamento in rapporto al Pil più alta del numero 3, in Europa e non nei singoli Stati non importa, di fronte alla retorica dei noeurini e alla prospettiva di non essere più in grado di poter giocare un ruolo nel futuro assetto mondiale.

Nel suo incerto futuro, l'Europa si preoccupa di molte cose in modo contrastante, anche al di fuori della finanza pubblica.

Abbiamo bisogno di un'Europa che chiede di intervenire su Ilva a Taranto in un apprezzato ruolo di motivatore di un necessario intervento, ma non si capisce perché la stessa Europa vieta allo Stato italiano di prendersene cura. Ecco che allora nasce il sospetto che l'intervento europeo sia teso a ridurre l'eccesso di produzione in Europa, come ha suggerito Fubini sul Corriere della Sera.

L'Europa ha bisogno di più investimenti. Nasce il Piano Juncker (copia del Piano Barroso di anni prima, pensato quindi in una situazione completamente diversa); deve agire sui fallimenti di mercato. Con una garanzia onerosa (ancora non si sa quanto) e nel rispetto delle regole sugli aiuti di Stato. Ma allora? Siamo o meno in presenza di fallimenti di mercato? Nasce il sospetto che il Piano non nasca per intervenire nei fallimenti di mercato.

Fino a quando non si darà corpo ad un vero Stato federale europeo e si continuerà a parlare di regole e non di policy ho l'impressione che la strada del declino europeo sia inevitabile. 

giovedì 19 novembre 2015

La burocrazia inizia nel Parlamento.

Leggo oggi che finalmente anche l'Italia avrà il codice dei contratti approvato, introducendo anche in Italia le direttive europee. Nell'aprile 2016 però!


La Camera dei Deputati ha infatti licenziato il testo della delega al Governo per introdurre tale novità nel nostro Paese. C'è ancora il passaggio al Senato e, poi, la stesura dei decreti delegati.

La ritengo una buona delega. Un grande passo in avanti. E non sentite quelli che dicono "si poteva fare di più". Questo è vero sempre. 
Ma il punto che vorrei fare oggi è si potevano introdurre le direttive direttamente, già da un anno almeno, senza dover passare per una legge delega, semplicemente trasponendole nel diritto italiano. Ovviamente non è solo per queste Direttive che si procede in questo modo. Ma questo modo di procedere, questo ritardo, pesa sul sistema italiano.
Il problema è che il nostro sistema in questo modo non si adegua rapidamente - almeno a livello normativo - agli standard europei. Non mettendo le nostre imprese nelle condizioni di imparare le nuove procedure, o di seguire le nuove regole e partecipare alla vita economica europea ad armi pari. O peggio, a non affrontare il mercato europeo o avere dei costi amministrativi elevati per seguire procedure diverse in Paesi europei che dovrebbero seguire regole analoghe.
Nel caso specifico, dovremo poi scontare i tempi necessari alle stazioni appaltanti per digerire le modifiche al codice degli appalti. Si dirà che si è presa l'occasione per una riforma complessiva della materia. Il che non toglie che le Direttive potevano essere introdotte subito (come hanno fatto altri Paesi) e poi definire, attorno ad esse, la riforma.

La burocrazia inizia nel Parlamento. Mi viene il sospetto che la burocrazia sia un problema genetico italiano.


martedì 17 novembre 2015

Europa: grande delusione o grande speranza?

Dopo sette anni dall'inizio della crisi (settembre 2008) la situazione economica sembra non essere né brillante, né sulla via della ripresa. 

Perché? 
Perché le cause della crisi sono ancora intatte! Debiti privati e pubblici che non accennano a diminuire; la non corretta allocazione degli investimenti e dei sussidi alla produzione; austerità; demografia; tecnologia che riduce il bisogno di lavoratori e quindi spinge in alto la disoccupazione. Eccetera, eccetera, eccetera. 
Naturalmente, non è un problema solo italiano o europeo. Ma l'Europa fa di tutto per aggravare la situazione, con non scelte e rinvii. 

L'unica arma messa in campo, dal Giappone agli Stati Uniti all'Europa è stato il QE, che però appare ormai insufficiente a dare una spinta decisiva alla ripresa.  
Certo, il QE ha aiutato ad assorbire lo shock, ma ha anche illuso che potesse, da solo, dare impulso ad un nuovo ciclo economico. Come se potesse, di colpo, rimuovere quelle barriere che - normalmente - è la Politica economica ad abbattere. 
Ci eravamo anche illusi (e forse lo siamo ancora) che il QE non avesse costi, anzi. Che aiutasse a comprare tempo, senza effetti collaterali, dando il tempo ai Paesi di coordinare uno stimolo fiscale poderoso. Che non vedo all'orizzonte. 

Nel frattempo, qualche effetto collaterale si registra. La liquidità dei mercati secondari dei titoli si è ridotta (gli Asset sono comprati dalle banche centrali), la liquidità abbondante e i tassi bassi spingono gli investitori a cercare più rischio, con la possibile conseguenza di creare bolle speculative (Corporate Bond nei Paesi emergenti? Il mercato immobiliare in Europa?); ma ancora peggio, si divarica la posizione tra chi non trova lavoro e chi vede il valore dei propri Asset aumentare di valore. E questo in un periodo dove le elezioni non mancheranno (Stati Uniti, Brexit, Francia e Germania) e le tensioni internazionali spingono verso gli estremismi. 

Ancora una volta manca la Politica. La visione della necessità di accelerare verso un'Unione Europea che lasci il governo dei decimali che fa crescere solo i noeurini e si concentri sulla crescita economica e sociale del Continente. 

Io continuo a sperare in un'Europa che sappia rinascere più unita, in un momento di difficoltà che chiama alla coesione sui valori nei quali il nostro continente è fondato. 

sabato 31 ottobre 2015

Vi dico perchè la spending non funziona col Commissario

Quando Tommaso Padoa Schioppa inserì nella legge finanziaria il servizio studi della RGS - su spinta forte di Riccardo Faini - l'idea della spending review era molto diversa da quella che si è poi affermata. L'idea era quella di aiutare le Amministrazioni dello Stato a capire come spendono e instaurare un meccanismo di valutazione in grado di farlo.

Sarebbe stata la fine del budget a spesa incrementale e dei tagli lineari. I due principali strumenti di politica di bilancio utilizzati in Italia e l'inizio di una nuova era. "Value for money" o "efficacia della spesa" sarebbero diventati termini comunemente utilizzati nei ministeri, oggi troppo pigri per capire se stanno spendendo bene o male. La qualità della spesa sarebbe diventato il fulcro della spending review. Adesso avremo un sistema economico diverso e un bilancio pubblico completamente ricomposto.

Se il governo Renzi e il suo Ministro dell'Economia vogliono lasciare il segno in questo Paese, non possono non capire che un Commissario esterno alle strutture ministeriali vive di notizie che gli vengono date da strutture che non vogliono i tagli, o da terze parti pronte a propinare la propria ricetta miracolosa per ridurre la spesa. 

Occorre far riflettere i Ministri su come stanno spendendo, quali risultati volevano raggiungere e quali hanno invece raggiunto. Troppe le leggi di spese che non riportano i risultati attesi; scarso il monitoraggio sui risultati. Meglio controllare lo stato di attuazione dei provvedimenti (quanti decreti attuativi il Governo ha approvato) o stuzzicare i Ministri a capire cosa stanno facendo con i soldi rastrellati ai cittadini?  

La proposta che ho avanzato in questo blog può essere decisiva (Serve una regola alla spesa). Ogni ministro saprebbe in anticipo le risorse di cui può disporre e sulle quali può contare per le politiche a cui è preposto. Dovrebbe fare delle scelte, coadiuvato dalla struttura tecnica del proprio dicastero e dal quello dell'economia. Il Parlamento prima (nella fase di allocazione delle risorse - durante la legge di stabilità) e la Corte dei Conti dopo (a consuntivo, non per punire ma per migliorare la qualità della spesa) potrebbero aiutare nel processo. 

Coraggio, ce la possiamo fare!

venerdì 16 ottobre 2015

La manovra di Matteo e Piercarlo. Peccato manchi una regola per la spesa.

Finalmente una manovra annunciata a favore della crescita. Basta pensare che si poteva fare di più, magari sforando il 3%. Chi bene inizia è a metà dell'opera. 
La riduzione dell'Ires a ben guardare è poca cosa: sono 3.000 euro ogni 100.000 euro di utile tassato (la bottom line). Molto intelligente l'incentivo sugli ammortamenti, copiato dalla legge Macron in Francia, dove ha dato buoni frutti. Ma, come intuisce oggi Forquet sul IlSole24ore, la copertura è evanescente. Qualche una tantum, l'appello alle clausole di flessibilità. Speranza di crescita. 
Manca una regola generale sulla spesa della PA. 
Il mio suggerimento è di introdurre una regola per cui la spesa pubblica non può crescere più dell'inflazione attesa (o programmata se preferite). 
Se i ministri di spesa vogliono più risorse per un intervento piuttosto che un altro, semplicemente dovranno chiedere una diversa allocazione delle risorse. Insomma, fare delle scelte che li espongano al giudizio del cittadino sulla capacità di fare politica nel nuovo millennio. Non basta certo la camicia bianca e non portare la cravatta, ovvero usare il blog per millantare ricette nuove e generose. 
La politica economica è scelta. La politica è visione. La politica è saper sfruttare quello che c'è a disposizione. 
Certo sarebbe la fine delle "mance" che spesso spuntano nelle leggi si spesa. Io non ne sentirei la mancanza. Sarebbe anche il modo giusto di fare Spending review: vedere dove allocare le risorse, riducendole là dove servono meno e farle rendere di più. Lo chiamano Value for Money (i vecchi come me efficiente allocazione delle risorse). 
Inoltre, con una regola semplice sulla spesa, il dibattito si concentrerebbe sulle scelte e non sugli slogan o sulle richieste impossibili. 
Un discorso a parte meritano gli investimenti e la scuola, su cui concentrare le maggiori risorse del Paese. Ma su questi temi torno dopo con un altro post. Intanto, continuiamo a sperare in un'Italia migliore. 

domenica 4 ottobre 2015

L'Europa del benessere è lontana. I Noeurini possono stare tranquilli.

L'UE, così come è fotografata oggi dai dati economici e dalle discussioni su come riprendere il cammino di integrazione economica e politica, è la conseguenza del processo di integrazione sbilenco seguito all'introduzione della moneta unica. 

Grazie a regole contabili da ragionieri - che nulla hanno a che fare con la politica economica - e una politica industriale che impediva agli interventi degli Stati di servire a ridurre le disparità tra sistemi produttivi per crearne uno Europeo - al riguardo vedi il mio post Il caso wolkswagen risveglierà l'Europa) - le differenze tra Paesi europei si sono consolidate. 

I Governi dei diversi Stati dell'Unione, di fronte alla crisi del 2008, hanno reagito diventando sempre più egoisti e tradendo lo spirito dell'Unione. In luogo di capire che erano le regole contabili a non funzionare, i Paesi Membri hanno messo in discussione l'Europa stessa. Conseguentemente, l'Europa si è mostrata lenta ed indecisa sul da farsi, facendo emergere interessi di parte, contrastanti tra di loro. Allo stesso tempo le differenze sono diventate sempre più evidenti, esacerbate dalle vicende greche e degli immigranti. 

In tutto questo, si è persa la capacità dell'Europa di competere su scala globale; i ritardi di competitività di molti Paesi europei penalizzano l'intera area. Pensare in modo egoistico al futuro del proprio Paese, nell'ambito di un'unione monetaria,  vuol dire "comprare" un pò di tempo a scapito dei propri partners, prima di affondare. 
Presi singolarmente, alcuni Paesi europei hanno caratteristiche per competere a livello globale, peccato che non abbiano le dimensioni del mercato degli Stati Uniti, del Brasile, della Cina. L'UE,  invece, rappresenta un mercato di 500 milioni di persone, la più grande economia della Terra, con 14.000 miliardi di euro di PIL ed una capacità sociale unica per tradizione e cultura. 

Per riprendere la corsa verso lo sviluppo sono sufficienti le tre iniziative della Commissione Europea (Enargy Union, Capital Markets Union e Digital Single Market)? Direi di no. Mi sembrano specchietti per le allodole. 
Fintanto che gli Stati non trovano meccanismi di governance veri, finché il dibattito non si sposta sul ruolo del Parlamento, per farlo diventare il motore democratico dell'Unione, e non si parla di bilancio federale e di debito pubblico europeo, i noeurini possono stare tranquilli. L'Europa dello sviluppo e del benessere è lontana.